Jennifer Gitiri è in Italia per qualche giorno a raccontare la sua storia (http://www.compassion.it/ita/notizie-testimonianze/jennifer-gitiri-italia). Perché? Perché da piccola viveva in una delle tante baraccopoli del Kenya finché Compassion, una onlus internazionale che si occupa di sostegno a distanza, non l’ha inserita in uno dei suoi programmi aiutandola a diventare un avvocato. È già laureata e, dopo il dottorato che inizierà presto, diventerà un’attivista per i diritti civili per aiutare altri kenyoti con un passato senza speranza come quello che si è lasciata alle spalle. Jennifer, africana, è stata adottata da una coppia americana.
Io che vivo a Torino ho adottato prima un bimbo thailandese e poi due fratelli filippini. È iniziato tutto per caso. A 28 anni facevo del volontariato presso un centro di anziani e non avevo alcuna simpatia per i bambini. Un giorno, al centro qualcuno portò un calendario di un’associazione per le adozioni a distanza di cui non avevo mai sentito parlare, Compassion.
Sfogliandolo, lo sguardo di uno di quei bambini mi catturò. Per giorni non pensai ad altro. Quella foto mi aveva bucato il cuore. Decisi di contattarli e adottare un bimbo. Tornata a casa annunciai ai miei genitori che sarebbero diventati nonni: furono scioccati, non ero neanche sposata! Ma io volevo e pensavo a Ness come se fosse il mio primo figlio. Aveva 10 anni e viveva in Thailandia. Stabilire un rapporto con lui fu lungo e difficile: era stato abbandonato da un altro sostenitore, ma alla fine dopo avergli scritto decine e decine di lettere si fidò e diventammo confidenti. Mi raccontava se lo premiavano a scuola o se bisticciava con la mamma biologica. A volte aveva paura che io non lo appoggiassi, che fossimo troppo diversi per culture e religioni, ma io lo rassicuravo: “Nessuno ti vuole cambiare a me va bene qualunque cosa tu sia. – gli dicevo – Io ti rispetto”.
Al compimento dei 16 anni, Ness lasciò il centro. Fu un dolore grande. Poco dopo i volontari Compassion mi chiesero se me la sentivo di prendere un altro bambino, o come dico io, “di avere un altro figlio”. Era un momento difficile per me: incinta di una femmina, stavo vivendo una gravidanza a rischio con grosse probabilità di pericolo per me e lei. Ma Bia, dall’altra parte del mondo, nelle Filippine, aveva bisogno di aiuto. Molto malata di tubercolosi, forse non sarebbe sopravvissuta. Era dura. Potevo sopportare la responsabilità di due vite da sostenere, quella di mia figlia ancora non nata e quella di Bia? Sì, dentro di me come per Ness prima, sapevo che era la cosa giusta da fare. Magari irrazionale, ma giusta.
Adottai Bia e comincia a scriverle. Sapevo per via del mio primo figlio adottivo, che le lettere possono essere estremamente utili per sostenere e incoraggiare i bambini e Bia aveva bisogno di tutte le attenzioni possibili. Le lettere per questi piccoli che non hanno niente e vivono spesso situazioni di disagio anche in famiglia sono come delle carezze che arrivano da lontano. Cominciai a fare cartoline personalizzate apposta per lei. Ritagliavo immagini di pupazzetti, animali, cartoni animati e le riempivo di frasi di sprone.
Bia era debole non riusciva nemmeno a scrivere, ma per settimane ha ricevuto un mio messaggio. Era il 2007. Oggi ha 16 anni. E io mi ritrovo ad avere due figlie e un marito a Torino, e due figli, Bia e il fratello Loreto, nelle Filippine. La mia famiglia italiana ha imparato molto da quella asiatica. Sono stati loro a benedirci, non il contrario. Le mie figlie sanno di avere dei fratelli lontani, sono consapevoli che l’adozione a distanza significa garantire il diritto alla sopravvivenza a persone che non hanno avuto la loro stessa fortuna: quella di nascere in un paese civilizzato. Lo scorso anno mi hanno appoggiata nel mio desiderio di andare a conoscere di persona Bia, Loreto e i loro genitori naturali che sono schiavi del gioco d’azzardo e spesso non possono provvedere come dovrebbero alla propria famiglia. Il mio aiuto ha allontanato da loro la minaccia della disgregazione familiare. I genitori naturali mi hanno chiesto perché continuo a farlo? Credo nell’importanza di questo sostegno. Ha reso migliore me, mio marito e le mie figlie. E spero faccia la differenza nella vita futura di Bia e Loreto: forse non diventeranno attivisti come Jennifer, ma un giorno potranno essere una mamma e un papà più concreti dei loro genitori, più sicuri delle loro capacità e in grado di infondere speranza e incoraggiamento nei propri figli. Ne hanno bisogno tutti i bambini del mondo, non importa dove nascano o chi li abbia messi al mondo.
Alessia Sotgiu
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