I problemi di Nico sono cominciati a 6 anni, in prima elementare. Non aveva cambiato scuola, ne frequentava una privata con materna, elementari e medie; non aveva cambiato compagni, 14 su 17 bambini erano gli stessi della materna; non aveva avuto altri traumi, in famiglia non era successo niente. Dopo una settimana di prima mio figlio IMPAZZISCE. Urla, strilla, dice parolacce, si butta per terra in classe, strappa libri e quaderni, taglia con le forbici astucci, zaini e giacconi.
La maestra non sa cosa fare. Parla con le colleghe della materna, la preside, la bidella, la suora direttrice, la psicologa dell’istituto, ma nessuno sa darsi una spiegazione. Quel bambino in cui si era trasformato Nico per loro era un estraneo, non lo riconoscevano. Intanto lui ricomincia a fare la pipì a letto, incubi, sonnambulismo e fantasie sulla morte: “Mamma è buia la bara? Mamma se muoio devo starci da solo nella tomba?”. Psicologa della scuola, insegnanti, tutti i giorni mi chiamano, un incubo. Portarlo a scuola è una pena. Urla, piange, si aggrappa al mancorrente. Ogni mattina lo lascio con la sensazione di averlo portato al patibolo. Diventa violento, spinge, tira i capelli, aggredisce i compagni. Approdiamo alla ASL, lo visita il primario. Colloquio, tre giorni di test e la diagnosi è DEPRESSIONE INFANTILE.
Io faccio una battuta:“Depresso a 6 anni? Un piccolo Woody Allen!?”. Lui mi guarda serio e risponde: “Signora, non rida, i bambini depressi a 6 anni sono quelli che a 9 si suicidano per un brutto voto”. Cominciano le domande: “Cosa è successo in famiglia che lo ha traumatizzato?”. Come se fosse colpa nostra, colpa mia. “Signora, lei è troppo ansiosa e il bambino vive la sua ansia”. ANSIA, questa parola ricorre in ogni colloquio che facciamo con gli psicologi. Come posso non stare in ansia! Vedo mio figlio, un bambino allegro, solare, gentile, sognatore, un piccolo ometto trasformarsi sotto i miei occhi in un grumo incandescente di odio, frustrazione, rabbia e infelicità. Mi chiede aiuto, piange fra le mie braccia: “Mamma perché non ci riesco? Mamma cos’ho che non va? MAMMA AIUTAMI!!!”. Gli faccio una promessa: “Non so cosa ti succede, non so da cosa dipende, non so come aiutarti, ma ti prometto una cosa: troveremo la soluzione insieme, passerà tutto. Un giorno guarderemo indietro e tutto questo sarà risolto. Ce la faremo, ce la farai!!!”.
Nel frattempo Nico non riesce a svolgere il lavoro in classe nonostante l’insegnante di sostegno. A casa è lentissimo e deve anche recuperare il lavoro scolastico. Cominciamo con gli psicologi. Cambia insegnante di sostegno in seconda elementare e la nuova, che è anche una logopedista, ci consiglia un dettato al giorno “per sciogliere il polso”, dice lei, in aggiunta a tutti i compiti assegnati. A casa cominciamo i compiti alle 15 per finire alle 21-22 tutti i giorni, nel weekend anche la mattina per cercare di recuperare quello che non fa in classe, e parliamo di seconda elementare! Un giorno l’ho cronometrato mentre scriveva: 9 parole 17 minuti.
Una sera ha lanciato libri e quaderni contro il muro e mi ha urlato: “COMPITI COMPITI COMPITI. IO SONO UN BAMBINO. MA IO QUANDO GIOCO?”. Passano due anni di inferno, note sul diario, gesti violenti e di ribellione, ma anche autolesionisti e di isolamento. Quando andiamo ai colloqui non sappiamo cosa dire, il nostro dolore lo vediamo riflesso negli occhi delle maestre che spaesate quanto noi, provano una strategia dietro l’altra per cercare di aiutarlo. Niente funziona, la situazione peggiora. In terza elementare arriva una nuova insegnante di sostegno. È la terza. Nico è convinto che il normale avvicendamento, dovuto a esigenze dell’istituto, sia colpa sua, sicuro di essere talmente brutto e cattivo da farle scappare. Parlo con la nuova insegnante che mi tranquillizza: farà di tutto per spiegarli che se ci sono stati cambi non è dipeso dal suo comportamento.
Dopo un paio di mesi di osservazione le maestre hanno un’intuizione e si fanno dettare un tema. Mio figlio non scriveva i temi e, secondo gli psicologi, il motivo era un blocco emotivo causato dal fatto che ero troppo presente nella sua vita, troppo invadente, e lui non riusciva ad esprimere pensieri tutti suoi. Con questa tecnica del prestamano viene fuori un tema di 3 pagine. La scuola ci propone di aspettare e di fare osservazioni in classe, ma io e mio marito decidiamo di muoverci immediatamente.
Conosco l’ospedale di L’Aquila grazie ad un’amica che ha entrambi i figli DSA, mi informo e prenoto. A novembre telefono per l’appuntamento, a gennaio il primo colloquio, a marzo i test e l’elettroencefalogramma, ad aprile la diagnosi. DISPRASSICO di grado medio-grave, ADHD e DSA, in particolare disgrafico di grado grave, per lui è impossibile scrivere a mano in modo automatico. Quando torniamo dall’Aquila Nico ci fa l’interrogatorio. Gli spieghiamo che c’è un problema, che è nato così, che adesso che sappiamo cosa fare sicuramente andrà meglio. Lo iscriviamo a psicomotricità, gli compriamo il computer e gli spieghiamo che lo avrebbe usato per scrivere sia a casa sia a scuola. La sera prima di portare il computer a scuola mi ha detto: “Mamma, tu credi che se mi impegno di più, se faccio più esercizio posso scrivere anch’io con la penna, come i miei compagni?”. Capito? SI SENTIVA IN COLPA COME SE DIPENDESSE DA LUI!
Io gli ho risposto: “Pretendere che tu scriva a mano è come pretendere che un bimbo con gli occhiali se li tolga e poi legga la lavagna dall’ultimo banco. Lui non legge senza occhiali, tu non scrivi senza computer”. Mi ha abbracciato forte forte ed è scoppiato in un pianto liberatorio, ha capito che non era colpa sua. Usava il computer a casa e a scuola da due mesi quando è successo un piccolo problema tecnico con un software del PC, un programma per lui essenziale non funzionava più. Gli abbiamo detto: “Non preoccuparti, lo sistemiamo subito. Lascia il computer a casa e per domani scrivi a mano. Vedrai che quando torni da scuola il computer sarà a posto.” Nico quella notte ha avuto un incubo e si è svegliato urlando. Era in un cimitero, dentro una fossa, pronto per la sepoltura. Era paralizzato e non riusciva a muoversi né a parlare. Ha visto dall’alto la pietra tombale che calava piano piano per sotterrarlo definitivamente. La pietra tombale era IL BANCO DI SCUOLA CON SOPRA LIBRI, QUADERNI, PENNE! Non lo abbiamo mandato a scuola senza computer, abbiamo aspettato il giorno dopo per evitargli di ricadere nell’incubo della scrittura a mano. E la diagnosi di depressione infantile? Ovvio che era depresso, non riusciva a fare niente di quello che facevano i suoi compagni. Era questo che lo rendeva depresso e arrabbiato.
C’è voluto un po’ di tempo, certo, ed anche i compagni si sono dovuti adattare a vederlo con il PC. Ma ora è sereno, autonomo. Con il computer fa i compiti, studia, e i temi sono di 2 pagine dattiloscritte, tutto da solo. I suoi rapporti con i compagni sono migliorati ed è tornato il bambino allegro e compagnone che era prima. Dalla diagnosi in poi anche il suo rapporto con la scuola è cambiato. Ci va volentieri, torna sereno; Alla fine della quinta elementare mi ha detto: “Mamma, perché non può esserci una sesta?”. Anche le maestre hanno fatto di tutto perché trovasse la sua strada ed una volta avuta la diagnosi hanno diretto tutti i loro sforzi nella direzione giusta e si sono impegnate al massimo perché, con i suoi strumenti, diventasse autonomo e recuperasse autostima.
Proprio ieri la sua maestra mi ha detto che Nico lo porterà sempre nel cuore, che per lei è come un figlio. Quando parliamo del passato, di quei tre anni prima della diagnosi, lui dice che era malato di monellagine e che ora è guarito. Sa che la monellagine era il suo modo di difendersi, per evitare di fare quello che non gli poteva riuscire, ma l’angoscia e l’infelicità di quei primi anni dice che non la scorderà mai. Oggi lo guardo di nascosto da dietro la porta mentre fa i compiti da solo seduto davanti al PC e penso: “Ho mantenuto la promessa, abbiamo trovato la soluzione.” Non importa penna o computer, Nico è tornato il bambino allegro e solare che era sempre stato prima.
Alessandra
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